Ero arrivato. Il luogo doveva per forza essere quello, non potevo essermi sbagliato: mi trovavo al limitare del parco cittadino che ospitava un grande cimitero. Era stato costruito in memoria dei caduti, ma nessuno ricordava più bene di quale guerra. Avrei tanto voluto andarmene, ma le parole preoccupanti che mi aveva riservato al telefono Elia, il mio migliore amico, mi stavano mettendo in soggezione molto più di questo stupido parco. Le ombre, gli sguardi minacciosi e sinistri che gli alberi e i cespugli sembravano riservarmi quella sera erano davvero terrificanti: affilati e taglienti come le lame di uno dei tanti coltelli che avevo visto mille volte in macelleria.
Ero in ansia dalla mattina stessa: la breve e sconnessa telefonata che Elia mi aveva fatto era stata particolarmente strana. Nelle ultime settimane l’avevo visto cambiato, ma non me ne ero preoccupato, dato che spesso, quando litigava con la sua ragazza, restava su di giri finché non si riappacificavano.
Ma questa volta era diverso, questa volta andava avanti da settimane. Il suo comportamento, be’, come descriverlo? Insolito, schivo, disattento, preoccupato,
spaventato. Io ero solo uno studente di cardiochirurgia: cosa potevo saperne di relazioni sentimentali, quando io ne avevo avuta solo una, e per di più non finita bene?
Finalmente lo scorsi in lontananza, mi incamminai nella sua direzione, felice di non essere più solo in mezzo a quel turbinio di sguardi e ombre. Ultimamente era cresciuto: si era alzato di un paio di centimetri e questo rendeva il suo metro e novanta ancora più inquietante. Aveva i capelli scuri, quasi sempre disordinati. Era sempre abbronzato e in forma, quella sera, invece, aveva i capelli pettinati all’indietro, in ordine. Più mi avvicinavo a lui e al lampione sotto il quale si trovava, più lo vedevo pallido. Di recente, preoccupato dai suoi strani
comportamenti, avevo deciso di pedinarlo.
Quel giorno stavo per abbandonare l’impresa poiché non si era mosso da casa per quasi nove ore, ma decisi di continuare quando lo vidi uscire verso le sette di sera, ormai il sole era tramontato. Subito dopo si era diretto nel bar che frequentiamo solitamente, l’Orchidea; lo seguii all'interno del locale. La giornata fredda e rigida mi aveva permesso di nascondermi dietro il mio cappotto nero e sotto il mio cappello dalla falda larga. Elia ordinò un Bloody Mary: lo conoscevo bene e non era di certo il tipo che beveva alcolici, era sempre quello che riportava a casa tutti dopo una festa. Mi soffermai a lungo sul drink che non aveva il classico colore arancione, ma una sfumatura più rossa, vicina a quella del sangue. Non vendevano sangue nei bar, giusto? Alzai lo sguardo verso le mensole degli alcolici, notai del succo di melagrana e mi tranquillizzai.
Decisi di lasciare il locale e di non parlare dell’accaduto ad Elia.
In confronto a lui io sembravo un ragazzino: alto appena un metro e settanta, con i capelli corti come quelli di un militare, amavo le feste e mi piaceva bere, ed Elia lo sapeva bene, visto che mi aveva riportato a casa in preda ai conati di vomito numerose volte . Studiavo cardiochirurgia ed ero un bravo studente, nonostante tutto.
Elia studiava architettura da due anni e mezzo. Avevamo un vasto giro di conoscenze, alcune abbastanza buone, altre magari un po’ meno raccomandabili. Io cercavo sempre di frequentare la parte migliore del gruppo, ma Elia, qualche volta, era incline ad avvicinare giri discutibili. L'avevo avvisato ripetutamente e gli avevo detto di lasciar perdere, di non mischiarsi con certa gente, ma lui non mi aveva dato ascolto. La mia preoccupazione ora era che lui fosse finito in situazioni pericolose o nei guai.
Il tipo peggiore di quel giro si chiamava Santiago. Aveva qualche anno più di noi, era il classico bulletto della zona, diciamolo: era uno spacciatore. Si riconosceva per la grande cicatrice che gli ricopriva l'occhio sinistro. Io l’ho sempre trovato inquietante, non mi è mai piaciuto quel tizio. Ripensandoci bene, aveva gli stessi atteggiamenti strani che aveva avuto Elia negli ultimi tempi. Forse avrei dovuto cogliere questi segnali molto prima e forse mi sarei accorto di cosa stesse realmente accadendo al mio migliore amico.
Arrivato da lui lo salutai, Elia ricambiò il saluto e mi disse di seguirlo. Ci sedemmo su una panchina lì vicino. Mi disse che aveva qualcosa di importante da dirmi, con lo stesso tono che aveva tenuto durante la breve telefonata che mi aveva fatto la mattina. Lo invitai a raccontare, a dirmi cosa stesse succedendo. Gli dimostrai che ero molto preoccupato per lui e che volevo davvero aiutarlo, di qualunque cosa si trattasse. Mi spiegò che per lui non era facile parlarne, ma alla fine vuotò il sacco e ciò che mi disse mi lasciò spiazzato.
Il mio migliore amico era un vampiro... Più ripetevo questa frase nella mia testa, più mi sembrava surreale... il mio migliore amico un vampiro! Ma come poteva essere successo, come potevo non essermi accorto di nulla, ero forse troppo preso dai miei studi? Com'era possibile che non me ne fossi mai reso conto; eppure avevo avuto tutte le prove sotto il naso, ma forse non volevo vedere la verità, forse ero spaventato da quello che poteva significare scoprire la verità.
Mi alzai di scatto e me ne andai, lasciandolo da solo, contraddicendo tutto ciò che gli avevo detto poco prima, senza riuscire a rimanere fedele ai miei principi di amico.
Ludovica Mascetti
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