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FRA GLI ULIVI



Save your tears for another day”

-The Weeknd


Preferivo non essere nessuno.

Davvero, preferivo che nulla di ciò che avevo fatto venisse riconosciuto, piuttosto che sentire il mio cognome svedese storpiato sulla bocca di qualche ignorante.

Sicuramente avrei voluto sentire elogi provenienti da menti acculturate e che conoscessero le mie opere.

Le  mie opere, ma non me.

Perciò non mi ero mai permessa di pubblicare nulla. Per non correre il rischio, sai?

Avevo venticinque anni e mi ero rifiutata con tutta me stessa di intraprendere un altro percorso di studi dopo il liceo classico.

Di grammatica e letteratura antica ne avevo avuto decisamente abbastanza, quindi avevo fin da subito scartato Lettere Classiche. A un qualcosa di scientifico non avevo nemmeno pensato.

Solo di una cosa ero sempre stata certa, fin dalle elementari: io avrei fatto la scrittrice.

Volevo che i miei problemi della vita ruotassero tutti attorno a un “non riuscirò mai a finire il capitolo entro fine giornata” piuttosto che a un “non riesco più a lavorare perché sento che non è la mia strada”.

Chissà, forse avrò preso un po’ troppo alla lettera il “fai quello che vuoi”.

E infatti, da due mesi buoni aspettavo la mail che mi avrebbe garantito un futuro. O almeno una parte del mio futuro.

Inviare il romanzo su cui avevo lavorato per cinque anni buoni a una casa editrice non era stata una scelta facile, e premere quell’ “invio” in un modo o nell’altro avrebbe cambiato il corso della mia vita. C’era solo da sperare che andasse per il meglio.

“Sarà una scrittrice! Sarà una scrittrice!” starnazzava mia madre alle sue amiche in competizione per quale delle loro figlie fosse il modello da seguire per le altre. Io occupavo da sei anni l’ultimo posto: quelle ragazze non le avevo nemmeno mai viste, ma mia madre tornata a casa dal bar il martedì mi raccontava i loro fatti e misfatti. Se le loro madri facessero lo stesso, probabilmente sarei la persona a cui le figlie pensano per consolarsi dopo un 27 invece che un 30.

Stesa sul divano riflettevo a come mia madre dovesse effettivamente sentirsi ad avere una sola bambina che per di più aveva scelto un futuro incerto. Mi chiedevo se quando la sentivo piangere in camera fosse perché non riusciva a essere fiera di me come una mamma dovrebbe o perché papà non si faceva più sentire da quando dopo il divorzio aveva sposato una ventenne in Svezia. Magari era per entrambe le cose, in fondo passavo il giorno a scrivere e a sognare una libreria con gli scaffali traboccanti di libri in edizione speciale per la candidatura al Premio Pulitzer con il mio nome in copertina.

Che fosse un segno del destino, le mie paranoie vennero interrotte da una notifica dal computer che assomigliava alla caduta di una goccia d’acqua sul pavimento.

Pregai che non fosse Zia Lola che tentava di mandare messaggi a mia cugina, e le mie preghiere vennero esaudite.

In due minuti tutto il vicinato si era riunito nel mio salotto, mia madre piangeva dalla gioia dopo aver visto il mittente e i nonni si tenevano le mani in segno di speranza. Mi auguravo che i gemelli seduti a terra sul marmo non sarebbero rimasti delusi dalla loro cuginetta e che la signora Cassandra avrebbe continuato a vedermi come la bimba che lasciava giocare nel suo orto con le bambole della figlia ormai cresciuta. 

Perciò iniziai a leggere ad alta voce, ma mi interruppi a metà.


Oggetto: Risposta alla proposta di pubblicazione del manoscritto “Alle ventitré e zero zero”

Gentile Sabrina,

Desideriamo ringraziarLa per averci inviato il Suo manoscritto, che abbiamo valutato con grande attenzione.

Purtroppo, dopo una seria considerazione, abbiamo deciso di non procedere con la pubblicazione del Suo lavoro. Questa decisione non riflette in alcun modo sulla qualità del Suo scritto, ma piuttosto le  attuali linee editoriali della nostra casa editrice e le  risorse disponibili.

Ci auguriamo che questo non La abbatta e La incoraggiamo a cercare altre opportunità editoriali per il suo lavoro.

Le auguriamo il meglio per il futuro e ci scusiamo per non essere in grado di soddisfare le Sue aspettative in questa occasione.

Cordiali saluti,

Mario Marini

Direttore Editoriale

Edizioni Albatros


Guardai le facce di chi aveva cercato di tendere una mano a mia madre aiutandola a crescermi quando mi ebbe troppo presto.

Di sua sorella, che mi seguiva nel fare i compiti portandomi in ufficio con lei mentre mamma cercava almeno di prendere il diploma.

Di Ermanno e Amanda Greco, con cui le sere d’estate parlavo sotto ai portici di come avrei dovuto fare Medicina e contribuire allo stipendio.

Di Valentina e di Matilde, che mi tenevano a dormire in camera loro mentre studiavano Psicologia. Avevano in comune il compleanno e molte altre cose.

Cercavo tracce di delusione sui loro volti, e la trovai anche dove non c’era, perché quella che provavo io era troppa da accettare e da tenere dentro. La provavo per tutti loro. Per le venti persone in un salotto da sette.


Mi alzai cercando di ricacciare indietro le lacrime, con il peso di occhi indesiderati sulla schiena, presi le chiavi della macchina e un altro paio da un mazzo infinito. Senza giacca e in tuta, mi chiusi la porta d’ingresso alle spalle.

Guidai per un’ora, nonostante per arrivare in campagna ce ne volesse a malapena mezza; il traffico mi fece capire che non ero l’unica a voler uscire dagli scempi di città. 

Tirai un sospiro di sollievo quando sentii un filo d’aria sfiorarmi le narici dopo aver aperto lo sportello dell’auto: la villa era come sempre, un susseguirsi di pietre incastrate nel cemento che delimitavano i trecento metri quadri interni, la siepe che contornava il giardino non era rifinita e appariva irregolare per tutto il perimetro. Ci era sempre piaciuta così. 

Nel viaggio senza finestrini e senza musica, avevo fatto i conti con il fatto che quello che stavo per compiere di lì a breve sarebbe stata definita “Una vacanza dal far niente” dalle amiche di mamma, mentre volevo solo starmene in pace fra gli ulivi della casa di proprietà dei nonni paterni. Di solito la affittavano a chi poteva permettersi di pagarla, ovvero a gente lavoratrice dal patrimonio rispettabile. L’avevano comprata per stare più vicini al figlio, ma quando era tornato da loro non si erano più nemmeno posti il problema di venirmi a trovare, così la gestione, e solo parte del profitto, spettava ai parenti materni.

Sapevo per certo che quel giorno l’avrei trovata vuota, perciò aprii il cancello e mi diressi dentro, le pietre del sentiero erano rotte e rischiavo di cadere ogni due passi sull’erba bagnata. Passai davanti alla cucina e l’enorme salotto e mi diressi direttamente nel bagno al piano inferiore, risparmiandomi la fatica di salire le scale a chiocciola. Riempii la vasca e accesi le candele che avevo trovato nel cassetto.

Purtroppo una voce interruppe i miei piani. 

“E quindi probabilmente me ne andrò via, Max”.

Trasalii. Una voce maschile stava attraversando il salotto, allontanandosi e avvicinandosi alla porta del bagno.

Panico. Che avessi fatto male i conti? Che il calendario degli affitti appeso in cucina mi avesse tradito? Che ci fosse davvero qualcun altro a dividere lo spazio con me? Da questo punto di vista, in realtà l’intrusa ero io.

Uscii dalla vasca e mi avvolsi un asciugamano bianco attorno al corpo mentre i capelli erano già raccolti in una coda spettinata, ciuffi umidi mi solleticavano collo e schiena, nel frattempo una miriade di gocce d’acqua inzuppava il pavimento. Appoggiai l’orecchio al legno della porta.

“Non ho scelta amico mio, la paga è buona ed Eva vuole andarsene. Potrebbe essere davvero la nostra occasione, sarebbe la svolta, sai? Per noi, per il bambino. L’America, Max! Dovresti esserne felice”.

“È assolutamente insensato! Non puoi buttarti giù perché quello zoticone di Giò ha assunto una bionda per lavorare al bancone! Tra tutti i pesci nel mare hai pescato proprio quello morto” ribatté un altro dalla forte zeppola.

“E che cosa vorrebbe dire?” Una voce femminile stavolta.

“Zitta” gli altri due le intimarono all’unisono.

Max, Eva, andarsene, America…non poteva essere.

Che ciò che avevo scritto avesse preso vita?

“Mamma! Giovanni mi tira i capelli!”

“Mamma! Non è vero, lei mi ha morso per prima!”

“Maledetti voi due, non è il momento!”

“Ma mamma!”

In circa dieci secondi una sovrapposizione di voci non mi consentì più di distinguerle dai rumori delle pentole sul fuoco.

Quella era una delle ultime scene della mia storia: Eva, Alberto, Max e Cristiano, quattro amici dall’inizio dei tempi che avevano vissuto innumerevoli avventure, si ritrovavano a doversi dire addio, ciascuno per vari motivi, mentre l’unico destinato a restare nel paesino d’origine in cui tutti si erano conosciuti e scoperti era proprio Max.

A pensarci bene, il luogo in cui mi ero immaginata il tutto ruotava attorno a una rielaborazione della casa a cui erano legati alcuni dei miei ricordi più belli, forse la maggior parte. Dopo che Eva si era decisa a scegliere fra Alberto e Cristiano, si erano incontrati per quella che sarebbe stata l’ultima volta insieme a casa dei genitori di Max, il quale non aveva ancora alcun piano per il futuro.

E fra amici promessi sposi e Cristiano in via di laurearsi, si era ritrovato a implorarli, senza nascondere il suo impaccio nell’esprimersi, di restare almeno un altro giorno, ma l’indomani tutti sarebbero stati già lontani da tutto ciò che era legato alla loro infanzia e alla loro amicizia.

Mi chiedevo se fosse stato proprio quel finale a non aver convinto la casa editrice.

Dal rumore delle sedie che strisciavano sul parquet capii che tutti stavano iniziando a prendere posto per l’ultima cena. E dalle voci infantili compresi che anche i fratellini di Max avevano trovato la pace.

Un risolino mi sfuggì dalle labbra al pensiero che già sapevo come tutto si sarebbe concluso.

“Allora brindiamo" annunciò Cristiano.

“Ma non al tuo percorso di studi” ribatté Max.

“Piantatela. Possiamo goderci questo ultimo pasto? Ci rivedremo a Natale se tutto va per il verso”. Eva.

“Quanto resisterete senza di me e le mie feste del sabato sera? Vi ricordate quando abbiamo chiuso la nonna di Eva  in giardino e abbiamo fatto entrare tutti dall’ingresso posteriore?”

Risero tutti alle parole di Alberto.

“Ci odiava proprio, mia nonna. In fondo quella notte le abbiamo finito tutto il vino”, affermò la ormai fidanzata.

“Nessuno si sarebbe mai immaginato che voi due sareste finiti a generare una prole” provò a scherzare Max, che stranamente quella sera fu di poche parole, e in quel minimo indispensabile che articolò cercò di usare termini che non contenessero né la “s” né la “z”.

I due interessati si guardarono sorridendo.

“Pensare che domani saremo in una casa tutta nostra, eh Eva?” 

Lei rise. Doveva avere gli occhi pieni di speranza.

Il commovente evento venne interrotto da dei singhiozzi. Provenivano da Sara.

“Oh, piccola, non piangere. Giovanni ha di nuovo cercato di infilzarti le dita con la forchetta?” chiese Eva comprensiva, torva verso il bambino.

“Io non voglio che ve ne andate via!” strillò Sara. “Chi mi accompagnerà a scuola adesso quando la mamma non c’è?”

La mamma dei tre fratelli tendeva spesso a lasciare i gemelli nelle mani del più grande, che mancava frequentemente alle sue responsabilità.

Il pasto proseguì fra risa e ricordi che ciascuno a turno faceva tornare alla mente degli altri.

Triste che dovesse essere una sera a sancire quindici anni di amicizia.

Pur non vedendoli, riuscivo a percepire il clima di addio che aleggiava fra tre ragazzi e una ragazza che si erano visti crescere ma mai rivisti cresciuti, fra l’insicurezza di qualcuno e la prontezza di altri. Così si alzarono tutti e un silenzio calò al posto di brusii sparsi per la stanza. 

La prossima volta sarebbe stata decisamente diversa: a Natale il figlio di Eva e Alberto sarebbe già nato, Cristiano si sarebbe probabilmente sposato con la prima ragazza incontrata in una nuova città e Max…beh Max sarebbe rimasto quello di sempre.

“Un’ultima volta fra gli ulivi?” propose quest’ultimo.

“Un’ultima volta fra gli ulivi” seguirono in coro tutti gli altri, che si precipitarono nel campo antistante la casa; mi bastò avvicinarmi alla finestra sulla vasca per avere un panorama completo dell’ultima pagina.

Iniziarono a correre, come in una dettagliata scena che avevo descritto nel primo capitolo, rincorrendosi senza uno scopo preciso e decisi a non pensare a un qualcosa al di fuori di quel prato buio e di quel momento. Controllai l’ora sull’orologio da polso appoggiato sul lavandino e si era fatto tardi: le ventidue e cinquantanove.

Il movimento generale si arrestò di colpo, come se tutti avessero avuto il mio stesso pensiero.

Si avvicinarono e si strinsero come fa una famiglia. Una vera famiglia.

A turno ogni coppia si scambiò qualche parola di augurio per quelli che sarebbero stati almeno sei mesi, ma da qua non potevo sentirle. Nessuno pianse, probabilmente pensavano che le tenebre li avrebbero traditi, avevano tenuto fede al patto di sangue fatto da ragazzini per cui nessuno avrebbe frignato per questioni del gruppo, nemmeno per il fantomatico addio che “mai sarebbe avvenuto”.

Si avviarono tutti verso le proprie dimore, talvolta guardandosi indietro. Eva e Alberto presero la sinistra, Cristiano la destra.

E a chi avevo dato un finale immeritato, non spettò né l’America né un lavoro illustre, solo un grande viaggio alla scoperta di sé stesso.


Livia Fiacca 1G

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