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INTERVISTA AL PROFESSOR ALESSANDRO BARBERO



Come tutti sanno, Alessandro Barbero è uno scrittore, storico e professore presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale dal 2002.

Egli è sicuramente l’esempio più emblematico di un accademico che, grazie alla sua grande abilità divulgativa in conferenze e attraverso l’uso di strumenti digitali come YouTube e Podcast, è riuscito a diffondere e a far amare la storia al grande pubblico e per questo nell’ultimo decennio ha acquisito grande popolarità in tutta Italia, soprattutto tra gli studenti. Il Medioevo, la storia romana, greca, le Guerre Mondiali ma anche situazioni di attualità: sono questi gli argomenti che Barbero tratta nelle sue lezioni. Non mancano inoltre le collaborazioni con la RadioTelevisione Italiana: dal 2007 partecipa a Superquark, dal 2013 conduce su Rai Storia il notevole programma a.C.d.C, mentre dal 2017 è membro del comitato scientifico della trasmissione Passato e Presente.


Il professore ci ha concesso l’onore di intervistarlo in esclusiva per la Redazione de La Siringa e ci ha dato la possibilità di rivolgergli delle domande in merito alla sua carriera.


Professore, In questi anni ha riscontrato un enorme successo tra i giovani, riuscendo, spesso, ad appassionarli allo studio della storia: lei ha mai avuto una figura che l'ha ispirata? Qualcuno che nella sua vita di studente è stato il riferimento, il modello?


Forse non nel senso che potete intendere voi. Nel mio lavoro di storico il fare divulgazione attraverso conferenze e podcast è arrivato tardi e tutt'ora ne costituisce soltanto una parte. Il vero lavoro dello storico è fare ricerca, studiare, lavorare sui documenti, porsi delle domande, cercare delle risposte, scrivere degli articoli scientifici o dei libri. Per me è stato fondamentale imparare a fare lo storico, ma conoscere il mestiere è importante per uno specialista di qualsiasi materia. Chiunque faccia ricerca, nel corso dei suoi studi all’università incontra un insegnante che lo guida nel mestiere. Questo vale per quelli che si occupano di fisica nucleare come per chi si occupa di storia medievale e, nel mio caso, la persona decisiva è stato lo studioso e relatore della mia tesi Giovanni Tabacco: era uno dei più grandi medievisti italiani. Egli apparteneva però a una generazione a cui non veniva in mente che lo specialista potesse anche andare in televisione o ai festival, anche perché ai suoi tempi non c’erano festival o cicli di lezioni di storia nei teatri. Non era certamente una persona che avrebbe affascinato dei ragazzi della vostra età, ma affascinava noi studenti universitari insegnandoci lo sguardo dello specialista. Mi sento di dire che questo per ogni studioso è importantissimo, su questa base, poi, c’è chi, come me, si è trovato a scoprire un altro aspetto possibile del mestiere: quello di raccontare la storia a un pubblico più vasto di quello dei nostri colleghi specialisti e dei nostri studenti all’università.



Lei è riuscito a cambiare lo stereotipo del professore di storia, rendendolo una figura in grado di comunicare fuori dagli atenei e dalle accademie e di raggiungere anche le piazze. È questa la parte del suo lavoro che le dà più soddisfazione? Viceversa, ci sono aspetti del suo lavoro che trova frustranti?


In realtà sono due domande diverse. Questa dimensione della divulgazione, del fare i podcast, le lezioni ai festival, dell’incontrare il pubblico e di essere diventato una specie di star della rete non mi dà nessuna frustrazione. Per dirvi proprio tutto ce ne sarebbe una: siccome insegno all’università, ho un indirizzo email pubblico, che è anche quello sul quale voi mi avete contattato, e su cui ricevo cinquanta email al giorno. Quasi tutte sono di persone che mi propongono cose bellissime, ma alle quali, purtroppo, devo dire di no. Questo continuo dire di no a gente fiduciosa (come voi, e non so come io abbia fatto a rispondervi di si!) è molto spiacevole. Però, uscire per strada e trovare dei ragazzi che vogliono fare dei selfie con me è molto divertente e non è affatto frustrante!

Detto questo, la domanda mi permette di ribadire ciò che era già implicito nella prima risposta: il versante del mio lavoro che è più evidente e per il quale vengo riconosciuto da molte persone è gratificante e divertente. Ma, spero non sembri da snob dirlo, non è la cosa più eccitante. Certo, trovarsi davanti a mille persone in un teatro è bello, ma ciò che mi piace di più è fare ricerca, stare in archivio e decifrare una pergamena medievale, trovare una risposta ad un interrogativo magari per ricostruire una vicenda di ottocento anni fa. Tutto quello che si può raccontare e che piace a tutti, alle spalle ha ricerca specialistica, difficile da spiegare a chi non è del settore.


Studiando, abbiamo appreso come la comunicazione della storia sia stata usata dai regimi dittatoriali a scopo di propaganda. A questo proposito le volevamo chiedere se ritiene che questo accada ancora oggi.


Certo che accade ancora oggi, anche se non nella stessa misura in tutti i Paesi. La storia in passato ha spessissimo avuto un ruolo di propaganda in senso lato: per la creazione di una cultura nazionale e di valori condivisi, non soltanto nei regimi dittatoriali. Questi ultimi possono permettersi di usare la storia come propaganda in modo più spudorato, perché lo storico che non è d’accordo con la linea imposta dalle autorità, in una dittatura può anche essere zittito, anche messo in galera o peggio. Però anche nell’Italia dell’Ottocento, che non era una dittatura ma un governo autoritario, la storia veniva comunque usata per costruire l’identità nazionale, per dire “Noi siamo i discendenti di quelli che hanno combattuto il Barbarossa per la libertà dell’Italia”. Oggi c’è una differenza abbastanza forte fra i paesi democratici dove, non so se sia del tutto una buona notizia, ai governi non importa assolutamente niente della storia, degli storici e di quello che gli storici scrivono. Non è su quello che si crea un’identità nazionale, un consenso. E quindi gli storici sono del tutto liberi di fare il loro mestiere, tranne su alcuni temi scottanti, come le Foibe, per fare un esempio nella nostra Italia di oggi. Però, a parte questi casi molto specifici, in generale gli storici oggi nei paesi democratici sono liberi di fare il loro vero mestiere, cioè cercare di capire chi sono gli esseri umani, cosa è successo in passato, senza nessun fine pedagogico, educativo, politico. O meglio, il fine educativo c’è, ma consiste nell’aprire le menti della gente e nell’insegnare a ragionare, per quanto ci si riesca, non nel ficcare in testa alle persone verità patriottiche o politiche. Non in tutto il mondo è così. Per esempio, la Russia e l’Ucraina, insieme ad altri paesi dell’est, sono attualmente nella fase in cui il nazionalismo, la storia del proprio popolo sono importantissimi per rafforzare l’identità e l’unità nazionale. Cose di questo genere, che non sono più attuali in Italia o in Germania, in paesi come la Polonia, la Russia, l’Ucraina, in parte lo sono ancora e l’insegnamento della storia, almeno l’insegnamento a scuola, non la ricerca specialistica, ha certamente una dimensione di propaganda nazionale molto più forte di quanto non sia da noi.



Secondo lei la storia nelle scuole italiane viene insegnata come si dovrebbe? Ci dice il suo punto di vista in merito, magari suggerendoci come si potrebbe migliorare?


Questo dovrei chiederlo io a voi: siete voi che state dentro la scuola e potete avere un’idea precisa di come venga insegnata. Più che rispondervi, farò una serie di premesse: io non ho più un rapporto così intimo con la scuola da poter parlare a ragion veduta, posso dare delle impressioni sulla base degli incontri che ho con gli studenti, ma, appunto, sono impressioni, non hanno un valore particolarmente forte. Di sicuro mi sento di dire che il successo di ogni insegnamento dipende al 99% dalle capacità e dall’entusiasmo dell’insegnante. Ci sarà anche altro: contano i programmi ministeriali e gli orari, ma la cosa veramente decisiva è l’insegnante. Ora, quello dell'insegnante è un lavoro di massa e quando si ha un lavoro di massa non ben pagato e molto frustrante da molti punti di vista, non ci si può illudere che sia svolto da persone di altissima qualità e con enorme entusiasmo. Detto questo, un docente appassionato e capace può fare amare perfino l’algebra, credo, cosa ai miei occhi stupefacente, ma non ci son dubbi che possa succedere. Sono queste le considerazioni che mi sento di fare. Dopo di che si potrebbe ragionare sul fatto che indubbiamente la storia a scuola è penalizzata: poche ore, meno di quelle del passato, collegamenti ibridi con Educazione Civica e Geografia, imposti da un Ministero che non sembra avere le idee chiarissime su cosa sia la storia e perché la si studi… questi problemi certamente ci sono. Tuttavia, io non saprei mai dare una ricetta per insegnare perfettamente la storia. No, quella ricetta non c’è. Mi sento anche di dire che la storia è vastissima, e il problema riguarda insegnare i fatti, perché senza conoscerli è inutile poi parlare a vanvera di altro… e insegnare i fatti significa insegnare date, nomi… cose noiose, ecco. Ma se non li impari, è un’illusione che si possa ragionare sui grandi problemi. Questa è una contraddizione da cui io non saprei come uscire. Sarà un genio chi le troverà una soluzione. Leggevo proprio oggi una notizia dalla Spagna, che diceva: “Smettiamo di insegnare la storia come una cronologia, insegniamo la storia come un insieme di problemi: il problema della disuguaglianza, quello dello sfruttamento...” ed è una bellissima illusione secondo me, ma son convinto che sia appunto un’illusione. Tutto sommato, il meno peggio è accettare che a scuola non si vada per divertirsi, ma per fare lavoro faticoso e noioso, e dunque che la storia sia anche somministrazione di informazioni. Poi l’insegnante appassionato è capace anche così di far vedere l’emozione che c’è dietro agli avvenimenti storici.


Ed ora la domanda delle domande. Da storico, che opinione si è fatto sull’idea che la storia sia “magistra vitae”? In altre parole, perchè bisogna studiare la storia?


Insomma, “Historia magistra vitae”, come tutte le citazioni latine, suona pomposa, arcaica, polverosa e automaticamente ci infastidisce. Se però facciamo lo sforzo di decodificarla, ha un senso.

Cioè, noi non studiamo la storia soltanto perché (contrariamente all’idea che spesso ce ne facciamo a scuola) è follemente divertente. La storia è una dimensione in più della nostra conoscenza del mondo, che ha tanti aspetti. Io non ho nessuna idea, per esempio, delle leggi fisiche che regolano il mondo, e certamente mi manca qualcosa per conoscerlo. Una società che non avesse idea del passato, semplicemente avrebbe una dimensione in meno, un’attrezzatura in meno per capire chi siamo, cosa stiamo facendo, perché il mondo è fatto così… Poi, se uno dicendo “historia magistra vitae” si immagina di prevedere il futuro, sarebbe fuori strada, perché una cosa che scopri studiando la storia e che è anche caos, che non è un insieme di leggi precise. Però la storia è anche gioco di cause ed effetti, è scoprire che alcune cose possono produrre certi risultati: questo, invece, è importante saperlo.

Aggiungerei che studiare la storia significa anche trovare esempi di eventi e fatti successi a essere umani, ed avere questi esempi, di nuovo, è una dimensione in più della nostra esperienza, ci permette di uscire da quell’unica vita di cui siamo prigionieri, per condividere le esperienze di molti altri esseri umani.

In tutti questi sensi la storia ci insegna tante cose se la studiamo.

Ad esempio, basterebbe appunto studiare la storia per capire che, se un’alleanza militare ostile si allarga fino ai confini di un paese che considera nemico, prima o poi quel paese potrebbe reagire, e, invece, apparentemente i governi non lo sanno.

Ma questo è un altro discorso.


Quale consiglio darebbe a quei ragazzi che vogliono intraprendere lo studio della storia a livello universitario? Qual è il percorso da seguire e quali le difficoltà che si potrebbero incontrare?


Oggi nelle grandi università esiste il corso di laurea in Storia, che non esisteva ai miei tempi. Io mi sono laureato in lettere, seguendo corsi e dando esami quasi esclusivamente di storia. In molte piccole università è ancora così e chi vuole studiare storia deve iscriversi a lettere e cercare di dare solo esami di storia nella misura del possibile.

Bisogna, secondo me, avere ben chiaro quello a cui si mira e le possibilità che si hanno davanti, al di là del fatto che, se si è appassionati di storia, si fa bene a studiarla all’università, indipendentemente dalle ambizioni che si hanno.

Più volte mi è capitato di ricevere mail da ragazzi che mi confidano: “Professore, io vorrei studiare storia, però me la sconsigliano tutti, mi dicono che poi non troverò lavoro”. La mia risposta di solito è: “Se il tuo papà o la tua mamma hanno una farmacia, magari iscriviti a Farmacia, poi la storia la studi per conto tuo e per tuo piacere. Se hai uno zio notaio che ti ha riservato un posto, pensaci bene se non sia il caso di intraprendere studi giuridici”.

Analizziamo quali sono le reali possibilità lavorative che offre una laurea in storia. Il punto è questo: il desiderio di diventare uno storico a tempo pieno, magari ottenendo un posto all’università è un desiderio perfettamente comprensibile; è necessario sapere che non è impossibile, ma anche che non è garantito. Nessuno può dire “io mi iscrivo a storia, mi laureo in storia e sono sicuro che riuscirò a vincere un concorso all’università” per il semplice motivo che i laureati in gamba sono molti di più di quelli che lo Stato è in grado di assorbire in posti di ruolo all’università. È una specie di imbuto: la laurea è il primo passo ed è fondamentale, ma tornando alla prima risposta che vi ho dato, decisivo è trovarsi un maestro, una persona che ti segua per la tesi di laurea, che ti insegni il mestiere e che decida che valga la pena di spendersi per aiutarti ad andare avanti.

Dopo la laurea, infatti, la tappa successiva è il dottorato di ricerca e nel dottorato ci sono tanti posti, comunque sempre inferiori al numero di persone che se lo meriterebbero. E poi, dopo i tre anni, la maggior parte di quelli che hanno fatto il dottorato non troveranno comunque lavoro all'università. Allora, qual è la buona notizia? Che se uno è disposto ad insegnare anche nelle scuole, i posti a scuola ci sono e ci saranno per un po' di anni. C'è una generazione intera che ha fatto molta fatica a entrare nella scuola, ma tutto fa pensare che in questo decennio qui i posti saranno di più. Quindi, con una laurea in storia nessuno muore di fame, nessuno rimane disoccupato, ma bisogna sapere che esistono grandi ambizioni e un piano B da tenere di riserva.


Sul nostro canale YouTube trovate la video-intervista!


Piselli Giulia

Urli Riccardo

Piergentili Sofia

Perelli Lorenzo

Simonucci Elisa

Pompili Elisa





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