Stefano Filippucci, IV M
Vincitore del XIX Concorso Letterario Nazionale
“Massimo De Nardis per un racconto di mare” (2022)
Fosse vero che invano
non si vive? E che tutto
ritorna, tutto si dà la mano?
…
Forse. Ma meno ancora
ti basta a naufragare
con più pace nel mare
da cui venivi allora
che la madre ci diede
questo corpo mortale.
U. Saba
“Ehi nonno, mi racconti una storia?”
“Mattia, è tardi, e poi che storia vorresti sentire?”
“Una delle tue!”
“Una delle mie?”
“Ma sì, una di quando avevi la mia età, una delle tue furbate in nave, o qualcuna delle tue avventure.”
Era sera, Stefano doveva essere piuttosto stanco per cercare di svignarsela di fronte ad una richiesta tanto insistente del suo amatissimo nipote. Era una persona a cui non dispiaceva affatto parlare ma adorava anche essere pregato. Mattia, che conosceva bene suo nonno, perché un po’ era come lui, decise di incalzarlo.
“Dai nonno, ancora non ho sonno e poi sei nato e vissuto per diciotto anni dentro una nave e mi stai dicendo che non hai storie? Nemmeno una tempesta da raccontare?”
La parola ‘tempesta’ sembrò scuotere il vecchio uomo. Il nipote se ne accorse.
“Ad esempio, nonno, non capisco il perché tu non mi abbia mai spiegato bene il motivo per il quale non sei praticamente mai sceso dalla nave, pur potendo, per diciotto lunghi anni”.
“Perché la terra” - rispose Stefano - “quella terra ferma lontana e scura non mi attirava per niente; anzi, mi metteva ansia. Nulla di ‘fermo’ mi ha mai veramente attratto…”
“Ma nonno, che stai dicendo” - rispose Mattia con una piccola e innocente risata perplessa - “tu non hai sempre detto di aver paura dell'acqua...?”
“Ma sì certo… l'acqua è stata la mia casa, la mia sicurezza, la mia vita per tanto tempo ma devi sapere che dal giorno del mio diciottesimo compleanno è cambiato tutto. L'acqua mi ha tradito in modo irreparabile e io non credo di essere ancora pronto a perdonarla.”
“Che vuoi dire nonno?”
Ce l’aveva fatta. Il nonno era finalmente pronto ad una delle ‘sue’ storie. Ma il tono grave e nuovo presagiva che stavolta si trattava anche di qualcosa di ‘grosso’. Mettendosi seduto sul letto del nipote, sentendone appena la presenza dei piedi sotto le coperte, Stefano iniziò il suo racconto.
“Diciotto anni... quella mattina compivo proprio diciotto anni. Non fu un giorno di festa. Mi svegliai per la violenza con cui le gocce cariche di acqua sbattevano oblique guidate dal vento sull'oblò della mia cabina. Di solito durante il giorno del mio compleanno mamma e papà, i tuoi bisnonni, organizzavano grandi feste. Il 29 maggio è sempre stato un giorno pieno di sole, un giorno caldo, un giorno che ti fa capire che la spensieratezza dell’estate sta varcando la porta. Ma quel giorno no, quel 29 maggio era diverso.
Ricordo buio, paura, terrore.
Gente che correva da una parte all'altra della nave gridando spaventata.
Buio. Paura. Terrore.
Io ero solo e rinchiuso nella mia cabina. Le gocce d’acqua aumentavano ed erano sempre più forti, scatenando tutta la loro rabbia e violenza. Avevo paura ma, allo stesso tempo, mi sentivo rapito dalle grosse onde impetuose che si scontravano sotto di me contro la prua della nave, facendola oscillare insieme a tutto ciò che conteneva.
Ero spaventato. Tremando osservavo i pastelli cadere e correre veloci sul pavimento. Il letto sbatteva ripetutamente contro le pareti che, come fossero terrorizzate dall’irruenta burrasca, iniziarono a muoversi e a spogliarsi di tutti i miei disegni e dei pochi quadri appesi.
Buio. Paura. Terrore.
Ricordo che tenevo stretta in mano una scimmietta arancione...”
“Ma questa?”, lo interruppe Mattia sbalordito.
“Sì, proprio questa.”
“Ma la tengo stretta sempre anche io prima di addormentarmi…”
“Scommetto per sentirti meno solo nel buio.”
“Sì, mi aiuta. È così soffice e morbida, mi dà sicurezza e tranquillità.”
“A pensarci bene non ricordo neanche chi me l'avesse regalata. Forse mio padre… ma no, lui era il capitano della nave, sempre impegnato, quasi inarrivabile. Più probabile che me l’abbia data mia madre, che ai tempi tutti chiamavano Nanà. O forse, no, forse fu Costanza. Te ne ho mai parlato? Era un’aiuto-cuoco e lavorava in cucina con la tua bisnonna. Ma chissà, la memoria a volte fa brutti scherzi”.
Stefano si fermò qualche secondo, forse ripensando ai suoi genitori che, per non abbandonarlo in un collegio sulla terra ferma, lo tennero sempre con loro, consapevoli che non avrebbe mai avuto la vita di un bambino normale, certo, ma almeno non avrebbe mai sentito la solitudine. Il nipote chiese ulteriori spiegazioni:
“Ma, nonno, hai vissuto per diciotto anni dentro quella nave, non sarà stato mica il primo temporale vissuto fino ad allora?”
“Mattia, quella burrasca era diversa. Dal suono delle prime goccioline nella mattina avevo già capito che non sarebbe stato un monsone estivo o la solita bufera in mare. Questo temporale avrebbe segnato per sempre la vita di alcuni di noi. Era come se fosse già scritto da una mano invisibile e impietosa, nella luce grigia di quelle ore. E così fu. Ma secondo te, cosa potevo fare io? "Un uomo non piange con le lacrime, le lacrime sono da femminuccia, un uomo affronta le situazioni anche se sono più grandi di lui", papà lo ripeteva sempre… E mai come in quel momento queste parole mi risuonavano in testa. Il ragazzino di diciotto anni appena compiuti, molto più basso rispetto alla media dei suoi coetanei, pieno di spavento, doveva fare qualcosa, non poteva restare chiuso in quella cabina ad aspettare.
Decisi di uscire.
Mi affacciai e vidi le nuvole oscurare i tenui raggi di sole che si affacciavano all’orizzonte. A un tratto, prepotenti, si fecero strada ferendo quella coltre compatta e aprendo uno spiraglio alla speranza, alla mia speranza.
Mi alzai dal letto lentamente così da acquisire un buon equilibrio per restare in piedi nonostante il continuo alzarsi e abbassarsi della nave. Quando si abbassava chiudevo gli occhi stringendoli forte e con loro flettevo i muscoli delle gambe, preparandomi così ad ammortizzare l’impatto successivo. Non erano passate molte ore ma la tempesta sembrava infuriasse sempre di più.
Barcollando da una parte all’altra della mia cabina arrivai alla porta. Allungai il braccio destro, mentre con l’altro buttai la tua scimmietta sul letto sfatto. Qualche secondo di incertezza: stavo facendo la cosa giusta? Ero insicuro: davvero volevo farlo? I miei genitori mi avevano sempre detto di rimanere nella stanza in quelle circostanze, e poi avevo paura. Ma questa volta non sarei rimasto chiuso lì dentro mentre sentivo le grida allarmate dell’equipaggio, le urla scomposte dei passeggeri o il fracasso dei tavoli che sbattevano su nel bar. I miei genitori, del resto, mi avevano anche insegnato a saper reagire davanti alle situazioni della vita. A sapersi rialzare. E tu lo sai bene, no?
Quante volte ti ho detto di provare, di buttarti, di rischiare di fronte ad una decisione, di fronte ad un ostacolo. In nave più volte, fin da piccolo, sono stato circondato da pericoli, circostanze in cui dovevo trovare io una soluzione, facendo tesoro di tutte le lezioni che mio padre, in quanto capitano, mi aveva impartito, ogni volta che era stato chiamato a decidere, ad assumersi le sue responsabilità. È proprio lui che mi ha trasmesso l’odio profondo, che nutro ancora oggi, di fronte al ‘lasciar perdere’, al non provarci.
Mi feci coraggio e mi avvicinai sempre di più alla maniglia. La mia mano tremava ma la strinsi forte, fino a sentire il sudore scivolare dalla pelle sul metallo freddo. Il cuore che batteva a mille. Sentivo una sensazione stranissima, come un pugno tra il petto e lo stomaco. Era come se il mio corpo fosse un barattolo di vetro che conteneva una farfalla appena catturata. Chiusi gli occhi e, veloce come quando si strappa un cerotto da una ferita, aprii la porta e corsi a cercare mia madre.
Tra i corridoi in moquette vedevo gente che si chiudeva nelle proprie cabine, altri che stavano nascosti impauriti come quando da bambini ci si rintana sotto le coperte sentendo dei rumori sconosciuti la notte; incontravo persone che si reggevano forte ai corrimani con gli occhi chiusi. Sentivo persone vomitare, sentivo persone pregare, pregare mille parole diverse, parole che, anche se non capivo totalmente, avevano il sapore delle confessioni sincere e tardive, del pentimento disperato degli uomini.
Trovai mia madre che insieme agli altri cuochi era disperatamente indaffarata nel mettere in sicurezza la cucina e le zone di ristoro. Appena mi vide mi prese per mano dicendomi affannosamente di uscire fuori insieme a lei per aiutarla a chiedere ai passeggeri di ritirarsi nelle loro cabine e di non occupare le terrazze spazzate dal vento. Che strano, non me l’aspettavo. Ad essere sincero pensavo, o forse speravo, che mi ordinasse di tornare dentro la cabina e rimanere lì, almeno finché la situazione non si fosse calmata. Invece no. C’era bisogno di me. Uscii insieme a lei e, di colpo, fui travolto da una raffica di vento assordante.
Mi precipitai velocemente dai passeggeri svolgendo il compito che mi aveva assegnato mia madre. Abbracciai il corrimano e tenendomi attaccato passo dopo passo arrivai ai passeggeri. Le persone erano impaurite, si tenevano abbracciate tra di loro cercando di coprirsi inutilmente dagli schizzi delle onde con le proprie felpe o giacche, ma nonostante la paura e la nausea, mi accorsi che tutte erano incantate da quella danza delle onde.
La nave si riempì di acqua.
La nave si riempì di terrore.
La nave si riempì di morte.
"ATTENTA NANÀ"... sentii forti e squillanti queste parole mentre cercavo di aiutare gli altri. "ATTENTA NANÀ!"”
Per Mattia, abituato fin da piccolo ai racconti delle mirabolanti avventure del nonno, Nanà, la sua bisnonna, era quasi un personaggio mitologico. Di Nanà gli aveva parlato tante volte, raccontandogli di come si fosse presa cura di lui nel tentativo di fargli vivere una vita che sapesse di normalità, di come lo avesse seguito con amorevole attenzione anche nello studio, di come lo avesse fatto innamorare del mare. Sua madre e suo padre dicevano sempre a Stefano che lui non era figlio di nessuno se non del vento e dell’acqua: figlio del mare.
“Mi girai di scatto e vidi mia madre che veniva colpita da un grande tubo metallico. E poi, quell’onda. Fu travolta.
Buio. Paura. Terrore.
Rimasi inerme. Ero all'improvviso diventato inutile. Mi sentivo inutile. All’improvviso mi sentii solo. Di colpo la tempesta divenne silenziosa spezzando tutti i miei rami morti, sradicando con prepotenza tutte le mie radici. Mi vidi in un angolo al buio, seduto per terra con le gambe piegate e le braccia che le avvolgevano strette.
Mi sentivo inutile. Incapace perfino di gridare.
Buio. Paura. Terrore.
Un'altra onda fortissima, senza pietà portó via Nanà, la mia Nanà, mia madre. La mia vita, la mia guida, scomparve risucchiata dal mare.
Il suo amato mare se l'era presa senza chiedermi il permesso.
Lì per lì non riuscii nemmeno a muovermi. Riprovai quel forte dolore, quel peso, quel pugno nella zona tra il petto e lo stomaco; sentivo i muscoli delle braccia come se fossero carichi di un qualcosa da liberare, la farfalla chiusa nel barattolo che sbatteva ripetutamente contro quel vetro, cercando una via d’uscita, o provando a crearsela. Avrei avuto solo voglia di distruggere tutto quello che si trovava attorno a me. Mi ritrovai di colpo spiazzato. Fermo nel caos. Il cielo dinanzi a me continuava ad agitarsi, a sputare rapide fiamme di fuoco contro il suo specchio, contro quelle gelide acque. Sentivo le lacrime che volevano uscire, ma che non uscivano.
Fui devastato dalla rabbia. Non solo dal dolore. Urlai. Imprecai contro quel mare che mi aveva tradito, mi aveva ferito, mi aveva tolto il fiato, la speranza. Urlai contro quel mare che fino a quel momento mi aveva cresciuto, cullato tra le sue correnti, che mi aveva amato. Urlai contro quello che mi avevano insegnato ad amare e rispettare come mio padre e mia madre. Urlai contro le mie radici, le scelte della mia famiglia, la mia storia. Urlai contro me stesso.”
Un velo di lacrime coprì gli occhi di Stefano. Non aveva mai raccontato al nipote di quella tempesta né di che fine avesse fatto la sua Nanà. Né a Mattia era mai venuto in mente di chiederlo. Rimase impietrito. Avrebbe voluto consolarlo e scusarsi per averlo riportato a quei ricordi dolorosi. Eppure, le parole non gli uscirono dalla bocca e il nonno trascinò velocemente il polso sugli occhi per asciugarsi le lacrime. Tossì per ritrovare la voce. Poi proseguì.
“Il temporale non si calmò in fretta. Per un attimo guardai quelle onde violente innalzarsi e scontrarsi fra di loro o abbattersi sulla fiancata della nave. Restai fermo di fronte a quella lotta. Mi sembrava di vedere un bambino sotto un velo che cerca di liberarsi e che, non riuscendoci, si agita follemente, un po’ per gioco un po’ per rabbia, col risultato di avvilupparsi sempre di più. E mentre fissavo immobile questo ipnotico movimento, rividi me da piccolo tra le braccia di mia madre sul pontile principale della nave, rividi lei che tenendomi forte per le mani mi sollevava leggermente e girando su sé stessa faceva roteare anche me; rividi la sua risata, il suo sguardo di amore verso il mare, verso quelle acque, quelle stesse acque che se la portarono via.
Improvvisamente mi venne addosso un ragazzo poco più piccolo di me, teneva in mano un sacchetto bianco pieno di vomito e, terreo in volto, mi implorò piangendo di aiutarlo. Ma fu lui ad aiutare me. Nei pochi secondi in cui ci guardammo il ragazzo si dimenticò dei suoi malesseri e subito capì che da me non avrebbe potuto cercare aiuto. Chiamò velocemente altri passeggeri e insieme mi presero sotto braccio portandomi via da lì. Non riuscivo ancora a credere che l’unica àncora della mia vita si fosse spezzata e che io non potessi neanche cercare di riportarla in superficie. Continuai ad urlare mentre due serbi e quel ragazzo mi trascinavano con decisione tra i corridoi di quella nave. Le mie grida si disperdevano in mezzo al caos generale e tra le raffiche di vento attirai solo qualche sguardo impaurito, qualche sguardo di pena.
Dov’era mio padre? Dov’era in quei momenti nei quali avevo bisogno di lui come mai prima? Perché non era lì? Per qualche istante lo odiai. Ma non capivo che lui in realtà, dall’altra parte della nave, combatteva con tutte le sue forze.
"NON QUESTO", gridai. "NON QUESTO. NON A ME!"
E mentre le mie lacrime correvano sulla faccia, scavando piccoli solchi sugli zigomi, pensai a quanto non fosse giusto. Mia madre era appena stata strappata via dalla sua stessa vita, dalle sue stesse radici e, ora, era perfettamente in loro, era perfettamente loro.
Non so descrivere bene quello che vissi in quel momento. Ero sconvolto, non sapevo cosa fare, cosa dire, come avrei detto a mio padre che io in quegli istanti ero lì, che io avevo visto tutto e che non avevo potuto fare nulla.
Non sapevo come dirgli che lo odiavo perché non era lì, non sapevo come dirgli che era tutta colpa sua, non sapevo come dirgli che mi sentivo al buio, perso.
Sentii un forte abbraccio da dietro. Sentii un respiro affannoso vicino il mio orecchio. Singhiozzava, piangeva. Mio padre piangeva.
Mi girai e lo abbracciai pure io. Era una sorta di gara a chi stringeva di più, a chi era più capace di liberare tutta quella forza, quella sensazione di potenza intrappolata nelle nostre braccia.
Matti, la conosci la potenza di un abbraccio?
Io amo gli abbracci, molto più dei baci.
L’abbraccio credo sia una delle armi più forti che esistano, e tutti l’abbiamo.
L’abbraccio è semplicità pura ma allo stesso tempo si carica di un ineffabile significato. Con l’abbraccio capisci di essere amato, rispettato; capisci di non essere solo.
In quei minuti, l’abbraccio tra me e mio padre ci ha permesso di tornare indietro nel tempo, di rivivere le sensazioni che ci dava sempre la mamma e che forse ancora oggi ci continua a dare. Quell’abbraccio ci regalò pace.
Non so quanto rimanemmo così, appesi ad un sottile filo con quel vuoto in mezzo a noi che cercavamo di afferrare. Poi, a poco a poco, le raffiche di vento, prima tese e sferzanti, cominciarono a declinare, l'ondeggiare della nave si rallentò e in alto, tra le nuvole, riapparve una luce, una luce spietata su un mondo per sempre cambiato.
Ma torniamo alla storia, si sta facendo tardi.
Ancora abbracciati io e mio padre tornammo nella cabina di comando per guidare la nave in porto. Accompagnati dagli sguardi discreti, pieni di imbarazzo, da sguardi per i quali si percepiva che c’era un desiderio nel voler parlare, nel voler almeno provare a consolarci ma che allo stesso tempo, però, era battuto dalla paura.
La nave era danneggiata e andava abbandonata: i danni erano troppo ingenti per ripararla.
Così la terraferma, quella terraferma tanto lontana e tanto evitata divenne l'unica soluzione. Fummo costretti ad approdare al porto più vicino, non appena la burrasca si placò. Caricai poche cose nella mia valigia, tra cui la tua scimmietta ormai malandata. Col cuore colmo di lacrime, pesante come un macigno, scesi a terra.
Che strana cosa la terraferma.
Conobbi la frenesia degli uomini, la diversità di caratteri, l'abbondanza nei negozi, il disordine delle strade e l'enorme quantità di case e palazzi.
Che strana cosa la terraferma.
Conobbi gli affetti, conobbi la realtà e cominciai ad apprezzare tutto ciò che non aveva nulla a che fare con l'acqua. L'acqua mi aveva tradito. Mio padre e gli altri dell'equipaggio provarono più volte a convincermi, ma non avevo nessuna intenzione di rimettermi nelle ‘braccia’ di quelle acque traditrici. Avevo diciotto anni: ero grande abbastanza per provvedere a me stesso e pensare di intraprendere una strada che fosse tutta mia. Forse, a essere sincero, era solo un alibi. Non volevo ripartire”.
Mattia chiese timidamente se questo fosse il motivo per cui il nonno non andasse mai al mare con la famiglia.
“Beh, diciamo che il mio cuore non si è ancora riconciliato con quel dolore. Ora però, Mattia, è davvero tardi. Va’ a dormire.”
Spegnendo la luce, Stefano lasciò la stanza del nipote recandosi in cucina dalla moglie che subito intuì che ci fosse qualcosa di strano nell’aria.
E con un filo di voce chiese: “Che c’è, è una di quelle sere??”. Col tono di chi conosce benissimo anche le minime variazioni umorali del compagno di una vita.
“È una di quelle sere, sì…”
Gemma, divenuta sua moglie pochi anni dopo la tempesta, lo conosceva ormai da tanto, conosceva a trecentosessanta gradi lo Stefano ‘nato sulla terra’, ma ogni giorno scopriva altri lati nuovi, lati che riemergevano guidati dalla profonda e misteriosa forza del suo passato, lati che erano il frutto tangibile dei primi diciotto anni vissuti in mare dal marito. Lo guardò, con tenerezza, e scandì piano:
“La stessa pioggia che alimenta un albero, che è vita per l'albero, può travolgerlo, può strappare con violenza le foglie dai suoi rami e può tradirlo facendolo perire… ma quell' albero, senza la speranza di essere bagnato dall'acqua, muore.
Muore perché è senza speranza...”
“Ti amo tanto, anche dopo cinquant’anni, Ti amo tanto, Gemma.”
“Ora su, andiamo a dormire.”
Provarono a dormire o, almeno, Stefano ci provó. Si girava e rigirava in continuazione nel suo letto. Era in preda a mille pensieri che mordevano e davano battaglia dentro di lui. Sarebbe voluto tornare ad abbracciare il suo mare ma allo stesso tempo sentiva di odiarlo più che mai. Avrebbe voluto riavere sua madre, anche un minuto, solo per abbracciarla un’ultima volta. Avrebbe voluto rivivere il giorno del suo diciottesimo compleanno per provare, almeno provare, a fare qualcosa. Avrebbe voluto riavere suo padre per fargli capire che non avrebbe mai voluto lasciarlo solo. Avrebbe voluto solo dirgli che, una volta arrivati al fondo non si può far altro che risalire, ma che bisogna slanciarsi dal fondale stesso per poter ripartire con la spinta giusta. Avrebbe voluto.
Scese dal letto e, vestitosi con i primi abiti che gli capitarono sotto mano, andò in macchina. Era una cosa che faceva spesso quando era turbato: girare in macchina completamente in silenzio, da solo, meglio se nel buio assordante della notte, vagare senza destinazione.
Si ritrovò, come mosso da una forza fuori di lui, in una spiaggia. Spinse la maniglia dello sportello dell’auto e sentì in quel gesto la stessa paura mista ad adrenalina di quel giorno, quando si decise ad aprire la porta della sua cabina durante il temporale. Uscì lasciando affondare i suoi piedi nella sabbia fresca della notte. Fu una sensazione bellissima, inaspettata. Come di un abbraccio.
Con il rumore delle onde, un leggero vento che soffiava sulla sua faccia, a Stefano tornò in mente un passeggero della ‘sua’ nave. Che strano, per anni non ci aveva più pensato. Un giorno, indistinto nella memoria, quel passeggero gli disse che nella vita è proprio quando non hai nulla, quando pensi di non aver nulla, che puoi iniziare a costruire.
Eccola. Si riaccese in Stefano quella sensazione. Quella piccola farfalla chiusa dentro il barattolo di vetro. Voleva uscire. Ma questa volta era più insistente. Forse aveva trovato la via, la sentiva vicino…
Senza volerlo si ritrovò ad avvicinarsi sempre di più a quelle acque. Iniziò lentamente a sbottonarsi la camicia, a levarsi i pantaloni… si avvicinò all’acqua, le sorrise, si tuffò.
Si tuffò in quelle acque che aveva deciso di dimenticare, senza mai riuscirci.
Si tuffò in quelle acque che lo avevano cullato, che lo avevano cresciuto, che erano divenute parte delle sue cellule, con le quali alla fine aveva dovuto lottare, senza successo.
Le sorrise di nuovo.
“È inutile lottare con te, mi arrendo alla tua armonia, ho bisogno della tua armonia.”
Poi si abbandonò al dolce rollio.
La farfalla uscì, era di nuovo libera, era di nuovo lei.
Tra le onde, all’improvviso, sentì di rinascere. E fu di nuovo un bimbo nel grembo della sua mamma.
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